02/09/2002

I CORTI IN CONCORSO A VENEZIA 59

Tra i film in concorso alla Mostra del Cinema ci sono nove cortometraggi. E la sorpresa è stata tanta.
Sì perché, questi nove lavori, a dispetto delle voci che girano al Lido sulla mediocrità dei film in concorso, sono davvero notevoli. Forse alcuni restano un po’ sottotono rispetto ad altri, ma il livello resta comunque piuttosto alto.
Clown di Irina Efteeva (2002, 35mm, colore, Russia, 10’) è un viaggio trasognato. La narrazione si ispira al mimo-clown Slava Polumin e al suo spettacolo Snow Show ed è realizzata attraverso una particolarissima foto-animazione; meglio, i corpi, gli attori, gli oggetti sono animati come pitture viventi che narrano la pienezza della vita, fatta di gioia e dolore, amore e morte, luce e buio. La figura del clown, così silenziosa e sola, restituisce la pienezza massima delle emozioni più forti che l’esistenza può regalare. La mimica e le tinte forti dell’animazione, se è possibile, rendono ancora più intensi gli estremi racchiusi in ogni essere.
Tempo di Per Carleson (2002, 35mm, colore, Svezia, 4’) è la rappresentazione della sincronia, nell’istante in cui va fuori sincrono. Gesti, azioni quotidiane calibrate fino all’esasperazione, tanto perfette da risultare scontate e appiattite dalla certezza del loro esistere. Così, la sveglia suona alla stessa ora, il latte e il pane tostato sono allo stesso posto, le mani afferrano e ripongono oggetti e carezze nello stesso identico modo. Ma se una curvatura improvvisa dello spazio e del tempo sposta leggermente la ventiquattrore, ogni certezze va in frantumi, il mondo si capovolge e si trasforma in disperazione estrema. Strepitoso il montaggio ritmato sui gesti calibratissimi dei personaggi.
Redial (2001, 35mm, colore, Nuova Zelanda, 8’) è la richiamata. Michele Amas confeziona il percorso di un istante. Due voci si incontrano per un errore di chiamata telefonica: il fascino di una voce, la disperazione in cui tutto questo avviene, deflagrano come un ordigno tra due solitudini. Tra loro anche alcuni secondi di terremoto: la terra si scuote e una voce sconosciuta – ma calda e intensa all’inverosimile – è la cosa più familiare che si possa immaginare…
Little Dickie di Anita McGee (2002, 35mm, colore, Canada, 7’) è una serissima parodia musicale. Le frasi che una donna si sente tirare addosso come cliché, sono state confezionate in una canzone da operetta e catapultate in un probabilissimo western. Ne nasce un piccolo capolavoro di ironico squallore: un macho, vestito con il peggiore stereotipo, approccia una fanciulla, altrettanto scontata, nel solito saloon. La vera chicca sono i vocalizzi che escono a cascata dalla bocca del cow-boy, sono i cori e i balli da musical che fanno da cornice all’approccio, catapultato in un improbabile e magnifico selvaggio west.
Tu devrais faire du cinéma di Michel Vereecken (2002, 35mm, colore, Belgio, 9’) racconta il sogno del cinema. Banalmente un film sul cinema, ma confezionato ad arte e con l’irruzione in scena di Claude Chabrol nel ruolo di se stesso. Bella la luce notturna e calda che pervade tutta la narrazione: i sogni si svelano e si realizzano di notte, come i ricordi lontani e i volti più belli.
Tarjeta roja di Elena Vilallonga (2002, 35mm, colore, Spagna, 10’) si propone come una metafora della vita, dei suoi valori, e procede per metafore. Il confronto tra le due interpreti (paziente e terapeuta) è folgorante, incisivi i dialoghi che procedono sul filo dell’ironia e della disperazione. Forse un po’ esaltato e confuso il finale, ma possiamo sorvolare e ricordare il percorso in crescendo.
Meno efficaci ma degni di nota Kalozok szeretoje (Lover of Pirates) di Zsofia Péterffy (2002, 35mm, colore, Ungheria, 8’) e Pending di Anna Tow (2002, 35mm, colore, Australia, 9’). Il primo oscilla tra vittime e carnefici, e tra scambi di ruoli senza soluzione di continuità e con un po’ di monotonia. Bellissimi i disegni di pittura animata. Il secondo è un’animazione grafica molto serica, ma forse, proprio per questo, tagliente. E’ algida la fortezza che appare impenetrabile, come la figura che la abita; sono pungenti l’indifferenza e l’automatismo alla Orwell. Ma i corpi, sottili come fogli di carta, improvvisamente si animano librandosi nel cielo.
Infine, quello che sicuramente è stato il corto più apprezzato. Rosso fango di Paolo Ameli (2002, 35mm, colore, Italia, 10’) è un fatto storico elaborato con uno stile semplice e intensissimo. Un episodio raccontato con la capacità rara di annullare il tempo, dove pure il tempo è essenziale. Settembre 1918: un soldato inglese sotto il fuoco dell’artiglieria e sotto i bombardamenti aerei al fronte. Nei minuti-secondi iniziali Ameli racconta la follia, lo sgomento della violenza che spazza tutto, quella che non si può dire con le parole e che, a ricostruirla per immagini, richiede disperazione e sapore di morte raccolti in una sintonia di gesti, montaggio, movimento di corpi e musica. E proprio la musica è il centro della narrazione: un suono che sale a passi lenti e brevi, ma costanti. Il soldato inglese salta in una buca, il nemico tedesco gli punta il fucile addosso e tutte le bombe schivate fin lì, se le ritrova concentrate sulla punta della baionetta. La musica sale, ma il fucile fa cilecca. E allora l’inglese si avventa sul nemico, armato solo di coltello e disperazione. E la musica continua a salire. Il coltello penetra nella carne e un fiotto di sangue caldissimo (chissà perché, poi, dà questa precisa sensazione, in mezzo a tutto quel fuoco) schizza e inonda la pozza d’acqua al fondo della buca. La musica sale e il tempo si disintegra in quella fossa, assieme al sangue, al fango, alle grida dei due intrappolati nello stesso apparente destino. L’urlo liberatorio, che sentiamo solo attraverso le note, ricompone i gesti e i corpi: l’inglese tampona il sangue del nemico e il tedesco chiede il suo nome: Henry Tandey. E quando ricambia la cortesia si sente rispondere: caporale Adolf Hitler… [E.C.]